Ribellarsi è giusto - Vogliamo rompere un tabù

Vogliamo rompere un tabù
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Ribellarsi è giusto

Ribellarsi è giusto!
 
 
  Rompiamo il silenzio sul fatto che lo Stato italiano tiene in carcere da 40 anni 16 militanti delle Br e ne ha sottoposti altri 3, da oltre venti anni, al regime dell’articolo 41 bis dell’O.P, noto strumento di tortura e di annientamento psico-fisico per produrre “pentiti”.

 Questi prigionieri sono espressione di un movimento storico, gli anni ‘70-’80 del ‘900. Che è stato decisivo nello scontro sociale in Italia (e nel mondo) e la loro resistenza a tanti anni di prigionia testimonia la forza di quel movimento che sconvolse l’Italia per più di un decennio: e proprio per rimuovere questa stagione di lotte si vuole silenziare la loro esistenza.

 Ma non solo di rimozione si tratta: quegli anni infatti devono essere mortificati e criminalizzati, facendoli passare come “anni di piombo”.
  Nel caso dei prigionieri delle Br, si spera che la pressione esercitata da una lunga e dura prigionia li convinca a contribuire a questa opera di mistificazione storica … e allora sì che si romperebbe il silenzio su di loro e i media batterebbero grancassa.
  Una conferma si ha dai tentativi ricorrenti di catturare in giro per il mondo chi era scampato alla galera, per  riportarli qui come trofei, esercitando poi su di loro il ricatto di uno sconto di pena per estrapolare dichiarazioni massmediabili che mettono in cattiva luce quella fase storica.

  Cerchiamo di capire allora, brevemente, anzitutto cosa quegli anni hanno rappresentato e poi perché ancora oggi lo Stato senta la necessità di demonizzarli.

  In realtà, i veri “anni di piombo” per i lavoratori, i disoccupati, gli studenti e tutti gli oppressi furono gli anni dal dopoguerra a fine anni ’60, quando le condizioni di lavoro erano durissime, i salari bassi e gli orari di lavoro lunghi, nelle scuole regnava l’autoritarismo, le case erano un lusso, la sanità si pagava cara, le istituzioni totali (carceri, manicomi … ), erano dei lager … e alle manifestazioni venivano uccisi dalle “forze dell’ordine” (o dai fascisti al loro servizio), operai, studenti, braccianti, disoccupati.
 
 È così che a fine anni ’60 scoppiò la ribellione … che dilagò dalle scuole a dalle università alle fabbriche e i quartieri popolari, alle carceri, agli ospedali: Ribellarsi è giusto” “Vogliamo tutto e subito”, si gridava nei cortei! Lavoratori, studenti, disoccupati, misero in discussione la società tutta, volevano rovesciare il capitalismo che la dominava, volevano fare la Rivoluzione! E, come già un secolo fa faceva notare un famoso rivoluzionario russo, una ricaduta “secondarie” delle lotte rivoluzionarie sono le … riforme! Perché se la lotta delle riforme di per sé non paga, di fronte alla lotta rivoluzionaria la classe al potere si spaventa e fa delle concessioni, sperando di salvare così l’essenziale del suo dominio. E così, insieme alle denunce, agli arresti, alla repressione contro chi lottava, alla “strategia della tensione” con le stragi a suon di bombe per spaventare la gente e presentare lo Stato come unico difensore dell’ “ordine”, lo Stato avviò importanti riforme sulla sanità, sulle scuole, sull’università, sulla casa, sul carcere, sui manicomi … fu istituita la scala mobile per difendere i salari dall’inflazione e nelle fabbriche si allentò il controllo gerarchico sui lavoratori … furono introdotti l’aborto e il divorzio e ampliati i diritti delle donne … Insomma, furono “anni d’oro”, non di piombo, per gli oppressi! E ci sono voluti quaranta anni perché, in assenza di lotte incisive, il potere riuscisse a rimangiarsi la gran parte di queste concessioni.
 
  Una parte di quel grande movimento però voleva andare alla radice del sistema sociale dominante e portare la rivoluzione fino in fondo. Lo fece prendendo esempio soprattutto dalle lotte di liberazione dei popoli del Sud del mondo, dalla guerriglia di Che Guevara, dai Vietcong, dai Fedayn palestinesi, dalle guerriglie che, dall’Algeria alle colonie portoghesi, cacciarono via i colonialisti dall’Africa.
 
  Quella parte del movimento cercò di portare la guerriglia rivoluzionaria nel cuore della metropoli del Centro capitalista. Di questa esperienza, che non fu solo praticata in Italia, ma anche negli USA, Germania, Francia, Spagna, Grecia …, fanno parte i prigionieri di cui si stiamo parlando.
  
  Ma perché lo Stato italiano oggi, dopo più di 40 anni, teme ancora così tanto quel ciclo di lotte? La risposta bisogna cercarla nella crisi economica, sociale, politica che investe oggi il capitalismo occidentale nel suo insieme, una crisi peraltro avviatasi proprio a fine anni ’60, ma che nel nuovo millennio pare essere arrivata ad una svolta drammatica.
 
Ripercorriamo brevemente le tappe principali di questa crisi per capire meglio il momento attuale.
 
Negli anni ’80 fu messa in atto una grande ristrutturazione dei processi produttivi, soprattutto al fine di ripristinare il controllo sulla classe lavoratrice, nel tentativo di riprendersi quanto le lotte degli anni precedenti avevano conquistato e ripristinare il pieno controllo sulle classi subordinate.
 
  La crisi non venne superata, ma il crollo dei paesi “socialisti” dell’Est a fine anni ’80 parve aprire uno sbocco per uscirne, da un lato rendendo possibile lo sfruttamento della immensa riserva di forza lavoro qualificata a basso costo presente in quei paesi, usandolo anche come arma di ricatto per imporre alla forza lavoro interna ai paesi capitalisti occidentali precarietà e taglio dello “Stato sociale”, e dall’altro lato rendendo possibile il pieno sfruttamento delle materie prime disponibili nel Sud del mondo. Questo nuovo dominio su scala globale non fu raggiunto senza guerre devastanti, seppur localizzate, come quella contro la Jugoslavia e la prima di quelle fatte contro l’Irak (anni ’90).
 
  Ma questa nuova era, definita “globalizzazione”, in cui pareva ormai dominare senza intralci il capitale occidentale, nel nuovo millennio mostrò l’altra faccia  della medaglia: nuove potenze (soprattutto la Cina, ma anche altre realtà, che poi si raduneranno attorno al cosiddetto BRICS) emersero, e proprio all’ombra della “globalizzazione”.
 
  E anche nei paesi saccheggiati delle loro materie prime (soprattutto nel Medio Oriente “allargato”), si sviluppò una resistenza, con protagonista soprattutto forze islamiche, ma non solo.
  
   L’aggravamento della crisi del capitale occidentale nel 2007-2008, ha accelerato questi processi. In particolare, l’Occidente imperialista ha cercato di “accerchiare” economicamente, politicamente e anche militarmente, le potenze emergenti, per impedire che diventassero pericolose concorrenti e per ripristinare il dominio “occidentale” a livello globale, necessario alla fuoriuscita dalla crisi. D’altra parte sono state scatenate guerre nel Medio Oriente “allargato” contro quegli Stati o “entità” che rifiutavano il “nuovo ordine globale” (Iraq, Afghanistan, Libia …).
 
  Ma, non solo l’ “Occidente” è stato sconfitto in queste guerre e nel suo tentativo di “frenare” le potenze emergenti, bensì ha anche suscitato, in una realtà in cui i rapporti di forza tra  l’Est e il Sud del mondo da un lato e l’Occidente dall’altro si erano andati ridefinendo, una reazione inattesa sia da parte dell’Est, con l’attacco russo all’Ucraina, sia del Sud, con l’attacco dei palestinesi ad Israele e anche le rivolte popolari che hanno cacciato l’esercito “coloniale” francese dall’Africa sahariana: Mali, Niger, Burkina Faso.
 
  La guerra in Ucraina e quella in Palestina stanno aggravando la crisi economica, sociale e politica in Europa e USA, e si parla ormai esplicitamente del rischio di una guerra globale e quindi della necessità di instaurare una vera e propria “economia di guerra”.
 
  Il peso dei costi di questa situazione di concomitante crisi e guerra viene, e sempre più verrà, riversata sulle classi dominate dagli stessi paesi dell’occidente imperialista, implicando pesanti ristrutturazioni produttive (magari dipinte di … verde!), con una crescita dello sfruttamento e ulteriori tagli ai servizio sociali.
 
Di qui il timore, da parte degli Stati capitalistici occidentali, di un nuovo “assalto al cielo” e la necessità di prevenirlo con un indurimento della repressione contro ogni forma di resistenza a livello sociale e politico: un vero e proprio Stato di polizia, con nuove leggi di “sicurezza”, manganellate, denunce, arresti…
  
  Tra gli strumenti di questa attività di “repressione preventiva”, c’è la politica attuata nei confronti dei prigionieri delle Br. Obiettivo è farli diventare strumento di una vera e propria “guerra sulla memoria”, tesa a cancellare l’idea stessa di una lotta per una reale alternativa a questo sistema economico-sociale e politico; alternativa che gli anni e il momento storico, di cui questi prigionieri sono espressione, incarnano.
 
  Solidarizzare con questi prigionieri, rompere il silenzio sulla loro esistenza, farli vivere nelle nostre lotte, vuol dire negare la narrazione ufficiale su quell’”assalto al cielo” (come Karl Marx definì l’esperienza della Comune di Parigi) e riaffermare il principio che “ribellarsi è giusto”, che è possibile un’alternativa, cambiare questo sistema classista, iniquo e guerrafondaio; che è possibile lottare per una società senza classi, dove l’economia sia gestita socialmente per soddisfare i bisogni di tutti, come permetterebbe l’enorme ricchezza oggi prodotta e non dominata da pochi capitalisti, dai vari Musk, e banchieri, dai Draghi e dalle Lagarde, guidati dal puro calcolo economico, dalla logica del profitto; che è possibile lottare per una società che sviluppi le capacità di ciascuno e dove le oppressioni di genere, di religione, il razzismo, siano banditi; dove non vi siano popoli che opprimono altri popoli, ma dove tutti cooperino al benessere comune dell’umanità e alla salvaguardia della natura.
 
Facciamo quindi della solidarietà a questi prigionieri uno strumento in più per dare alle nostre lotte quotidiane di resistenza, sul lavoro, a scuola, nei territori, un orizzonte più ampio, una prospettiva di reale liberazione ed emancipazione da questo sistema di crisi, sfruttamento e guerra, che ci porta sollo alla barbarie.
 
 
Contributo di alcuni compagni di Milano




 
 
 
 
 
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