Contributo - Vogliamo rompere un tabù

Vogliamo rompere un tabù
Vogliamo rompere un Tabù
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Contributo

In Italia lo Stato tiene da 40 anni in prigione 16 militanti delle Brigate Rosse e ne sottopone altri 3, da 20 anni, al regime dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, cioè in stato di pressoché totale isolamento verso l’esterno e all'interno.
In USA lo Stato tiene prigionieri militanti delle Black Panther Party e del B.L.A. da quasi 50 anni.
Cosa accomuna queste due realtà?
-       Anzitutto il fatto che Brigate Rosse e Black Panther Party sono state le più radicate esperienze rivoluzionarie, rispettivamente in Europa e in USA, ambedue espressioni di un movimento storico, avviatosi a fine anni ’60 primi anni ’70 del ‘900, in cui nel cuore stesso del sistema capitalistico, nel suo Centro, si è sviluppato un grande movimento delle classi subordinate e oppresse, nel quale molti militanti hanno fatto una scelta rivoluzionaria e si sono organizzati di conseguenza.
-       In Italia, le Brigate Rosse si formarono nel 1970, all'interno del movimento di operai e studenti, con l’idea che per dare uno sbocco rivoluzionario al movimento stesso fosse necessaria la costruzione di una organizzazione e di una pratica guerrigliera, inserendosi nell'onda delle guerriglie che dal Che Guevara ai Tupamaros uruguayani, dalla Palestina al Vietnam stavano scuotendo il mondo.
-       In USA, il Black Panther Party fu fondato nel 1966 e con la sua azione multiforme [che andò dall'autodifesa armata dei neri alla costruzione di movimenti di autodeterminazione nei quartieri neri (mense, ecc. … ) ad un giornale che arrivò a vendere 250.000 copie], divenne un riferimento non solo nelle comunità nere, ma anche per il movimento degli studenti bianchi che in quegli anni si mobilitarono soprattutto contro la guerra in Vietnam; movimento che fu spinto dal Black Panther Party a mettere in discussione le radici stesse del sistema sociale dominante in USA, proponendogli un “fronte comune” per combattere il fascismo dello Stato americano.
-       Diversamente dalle esperienze precedenti per i diritti civili e umani e delle altre organizzazioni nere dell’epoca, il Black Panther Party non si limitò quindi ad essere un movimento per l’emancipazione dei neri contro la supremazia bianca, ma rappresentò un riferimento rivoluzionario in generale, comprendendo che la violenza razzista in America era strettamente legata con lo Stato e il capitalismo. Il Black Panther Party quindi non fu una organizzazione nazionalista, non era contro i bianchi, ma contro il capitalismo: al punto 3 del programma del Black Panther Party si diceva: Vogliamo porre fine alla rapina capitalistica della nostra comunità nera” . e a tal fine il BPP cercò anche un’alleanza con la classe operaia bianca e con altre organizzazioni bianche, per affrontare gli oppressori di classe di entrambi i popoli.
-       E fu soprattutto di fronte al pericolo rappresentato da questa scelta di mobilitare un fronte di classe bianco-nero che lo Stato americano scatenò una reazione repressiva a tutto campo contro il Black Panther Party, che il direttore del FBI definì “ la più grande minaccia alla sicurezza interna della nazione”. Questa repressione spinse una parte dei militanti del Black Panther Party alla costituzione, nel 1970, del Black Libération party, una organizzazione che fece diverse azioni in New York, in California e altrove.
Anche se questa battaglia rivoluzionaria nel cuore del capitalismo USA ed in Europa, non fu vinta, la forza di quella ribellione scosse il sistema dominante e lo costrinse a fare grosse concessioni su tutto lo spettro delle condizioni di lavoro e di vita delle classi subordinate: dal salario, all’orario di lavoro, dalla salute alla scuola, alla casa, sui “diritti” delle donne e delle minoranze e dei popoli oppressi all’interno stesso del Centro capitalistico. Tutte le relazioni sociali furono coinvolte da quella ondata di lotte, di cui furono protagonisti milioni di persone appartenenti alle classi oppresse e questo movimento si unì anche alle lotte di liberazione dal colonialismo e dall’imperialismo che già attraversavano le periferie del mondo.
Usando le parole di Marx sulla comune di Parigi, si può dire che fu un altro “assalto al cielo” degli oppressi contro il sistema capitalistico dominante.
Ci sono voluti più di 40 anni perché le classi dominanti riuscissero a riprendersi gran parte delle conquiste di questo assalto, profittando della quasi assenza di quella iniziativa rivoluzionaria che era riuscita a strappargliele.
Questi prigionieri sono figli di questo “assalto al cielo” e la loro resistenza è testimonianza non di eroismi individuali, bensì proprio della forza di quell’assalto.
Un altro fattore accomuna però questi prigionieri afroamericani ed europei: essi stanno subendo, dopo 40-50 anni un medesimo trattamento da parte dei rispettivi Stati. Dobbiamo allora chiederci: perché?
La risposta in poche parole: perché temono che, in un contesto di contraddizioni acute come quello odierno, possa generarsi un altro “assalto” al cielo! Criminalizzare, demonizzare, mistificare il più recente di questi assalti, dichiarandone l’impossibilità, è uno degli strumenti per prevenire questa evenienza. E questi prigionieri possono essere utili a questo scopo se collaborano a questa opera di revisionismo storico. L’alternativa per loro è un silenzioso annientamento; silenzioso perché finché resistono rappresentano un pericolo, in quanto essi, oggettivamente, incarnano proprio la memoria di quell’assalto degli oppressi contro gli oppressori ed esprimono la forza di quel momento storico che spinge ancora, dopo tanti anni, alla resistenza questi prigionieri.
Il silenzio viene rotto solo quando ci sono segnali di cedimento a rileggere la storia con gli occhi del potere.
Ma qual è, più in particolare, la realtà che spinge gli Stati a temere oggi un nuovo assalto e che dopo tanto anni rende ancora così importante il ruolo di questi prigionieri?
Dagli anni ’70 molte cose sono cambiate, ma in quale direzione? In quella della restaurazione proprio del sistema di sfruttamento e di oppressione che aveva generato qui movimenti.
E a muovere il cambiamento nei sistemi di produzione (con la crescita della precarietà), nella vita sociale (con i tagli del welfare, la militarizzazione delle metropoli, la rimessa in discussione dei “diritti” delle minoranze), nel mondo (con le continue guerre ai popoli delle periferie), è stata fondamentalmente l’esigenza del capitalismo di gestire una crisi che si trascina dalla fine degli anni ’50 e ’60.
Dopo la disintegrazione del blocco “socialista” dell’Est, molti si erano illusi che si fosse aperta una nuova era di pace e di sviluppo economico e sociale. Ma, piuttosto, si è sviluppato il tentativo del capitale occidentale di uscire dalla crisi usando il suo dominio a livello globale per sfruttare le classi lavoratrici e gli sbocchi di mercato dei paesi ex “socialisti”, e per saccheggiare ancor più il Sud del mondo con le sue materie prime. Ma il risultato di questo nuovo dominio globale del capitale occidentale, è stato, da un lato, lo sviluppo di nuove potenze economiche e politiche (i BRICS…) che contestano la legittimità di quel dominio assoluto, e, dall’altro, la ribellione del medio oriente e dell’Africa al saccheggio, cementata dall’islamismo.
La grande crisi economica del 2007/2008, che ha colpito l’economia americana ed europea, ha rappresentato una svolta che ha accelerato questi processi ed ha imposto la messa a punto di una reazione delle potenze imperialiste occidentali. La guerra in Ucraina e poi in Palestina, sono lo sbocco del tentativo di ripristinare un dominio globale, ormai messo in discussione.
Ma la messa in atto di questa strategia di gestione della crisi implica una “guerra” anche all’interno dei Paesi del Centro, nei quali, in Usa come in Europa, si è sviluppata una resistenza a livello sociale alle restrizioni economiche e sociali crescenti, finalizzate a finanziare la crisi padronale, e ora anche le guerre.
Il timore che questa resistenza possa evolversi in una messa in discussione radicale del Sistema dominante, ha fatto sviluppare una forte azione di repressione preventiva da parte degli Stati, che colpisce ogni livello di espressione dei movimenti
E nella politica di prevenzione è compresa una guerra alla memoria del più recente degli “assalti al cielo”, per uccidere un sogno; una guerra in cui i prigionieri svolgono un ruolo importante.
Chi invece anche oggi sogna una trasformazione dello stato presente delle cose, un cambiamento radicale del sistema economico e sociale e politico dominante non può non considerare questi prigionieri come parte della lotta per il futuro del movimento attuale, non solo per ciò che essi hanno rappresentato nel passato, ma soprattutto per quello che rappresentano oggi, in questa fase di scontro tra oppressori ed oppressi; e deve fare della resistenza di questi prigionieri uno dei simboli della lotta per il cambiamento radicale del sistema.


Alcuni compagni



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